Corte EDU, sez. I, 23 settembre 2025, Causa S. c. Italia (ricorso n. 6045/24)
Per rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della CEDU, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di tale livello minimo dipende dall’insieme degli elementi del caso, in particolare dalla natura e dal contesto del trattamento, dalla sua durata, dai suoi effetti fisici e mentali, ma anche dal sesso della vittima e dal rapporto tra la vittima e l’autore del trattamento. Un maltrattamento che raggiunge tale soglia minima di gravità comporta in genere lesioni fisiche o forti sofferenze fisiche o mentali. Tuttavia, anche in assenza di maltrattamenti di questo tipo, quando il trattamento umilia o avvilisce un individuo, dimostrando mancanza di rispetto per la sua dignità umana o sminuendola, o suscita nell’interessato sentimenti di paura, angoscia o inferiorità tali da spezzarne la resistenza morale e fisica, può essere qualificato come degradante e quindi rientrare nel divieto di cui all’articolo 3.
Nel trattamento giudiziario delle controversie relative alle violenze contro le donne, spetta alle autorità nazionali tenere conto della situazione di precarietà e vulnerabilità particolare, morale, fisica e/o materiale della vittima e valutare la situazione di conseguenza, nel più breve tempo possibile.
Vanno condivise le preoccupazioni del GREVIO circa l’esistenza di una pratica giudiziaria molto diffusa che consiste nel respingere sistematicamente il carattere abituale di un comportamento violento ripetitivo quando questo è concentrato in un breve periodo di tempo, quando i fatti si verificano alla fine di una relazione, senza precedenti dichiarati, e vengono quindi attribuiti a un semplice “stato di rabbia” passeggero, o che la vittima ha manifestato una resistenza attiva, portando i tribunali a riqualificare le violenze come “conflitto coniugale”.
Il GREVIO ha rilevato nel trattamento giudiziario della violenza domestica il persistere di stereotipi pregiudizievoli, situazione che si traduce in particolare in una tendenza sistematica, in primo luogo, a ridurre la violenza all’interno della coppia a semplici «conflitti» e, quindi, a considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando il differenziale di potere generato dalla violenza stessa, in secondo luogo, ad aderire a rappresentazioni stereotipate che presentano le relazioni intime come necessariamente strutturate attorno a rapporti di sovrananza/sottomissione e, in terzo luogo, a presumere automaticamente che la vittima, se è all’origine della separazione, cerchi di vendicarsi, di ottenere un risarcimento o di punire il proprio partner.


